Inchiesta indipendente sulle malattie della Guerra del Golfo - Londra, Luglio - Settembre 2004
6. La professione medica


Louisa Graham, vedova di un veterano, 19 luglio 2004.
[Mio marito] non voleva parlarne con me e tanto meno il suo medico di famiglia. Nel periodo in cui è incominciato a diventare sempre più violento, a volte [mio marito] cercava di trovare aiuto; contattai il suo dottore ma l’unica risposta che ne abbi fu “Non posso discutere della situazione di suo marito con lei. È una questione di riservatezza del paziente”.

Adrian Willson, RAF, 19 luglio 2004.   
Quando chiesi al dottor Gabriel quanti pazienti con anomalie del fegato aveva avuto, lui mi disse: “Non possiamo tenere dati statistici nei nostri archivi”; io mi arrabbiai con lui, suggerendo invece che era proprio quello il suo lavoro. Lui allora mi ributtò contro la legge sulla registrazione dei dati personali dicendo: “Non lo posso fare perché non mi è permesso”. 

Dott. Nigel Humphrey Graveston, Presidente della National Gulf Veterans and Families Association (Associazione Nazionale dei Veterani del Golfo e delle loro Famiglie), 33° ospedale da campo RAMC di Al Jubail in Arabia Saudita. Consulente anestesista nell’esercito, 
19 luglio 2004.

Come per la maggior parte dei dottori, allora non ne sapevo praticamente niente. È importante sottolineare che la maggior parte dei dottori in questo paese sapevano molto, molto poco, o quasi nulla sulla sindrome della guerra del Golfo, il che è un grosso problema... Ho l'impressione, dopo aver visto sia il mio medico generico che il mio neurologo, che i dottori generalmente sono molto occupati. L’ultima cosa che vogliono è un’ennesima nuova malattia che venga a rovinargli la giornata.

Signora Calvert, moglie di un meteorologo della RAF attualmente affetto da demenza, 19 luglio 2004.
Ci recammo all’unità malattie della Guerra del Golfo dell’ospedale di St. Thomas. Lo staff era molto gentile e preoccupato per lo stato di salute di Trevor – era il 1999 – ma una volta entrati e accomodatici nel primo ufficio con l’infermiera responsabile, questa ci disse: “Capite che questo non ha niente a che fare con la Guerra del Golfo?”. Questa furono le sue prime parole, e ancora non avevamo visto il dottore.

Michael Roy Lingard, RAF, 21 luglio 2004.
Dopo una prima visita dal mio medico di famiglia, venni mandato da un primario dermatologo per curare la mia eruzione cutanea. Siccome avevo letto sul giornale che altri veterani della guerra del Golfo avevano sintomi simili ai miei, decisi di mostrare l’articolo in questione al dermatologo chiedendogli la sua opinione. La risposta che ricevetti fu un rifiuto e un disprezzo totali per l’articolo, una situazione alla quale ho dovuto far fronte molte altre volte a partire da quel giorno. L’eczema venne diagnosticato come pitiriasi versicolore, di cui soffro tuttora. Dopo aver visto la reazione del dermatologo, feci passare un bel po’ di tempo prima di tornare dal mio dottore sempre per lo stesso problema, e quando finalmente mi decisi, mi guardai bene dal parlare della sindrome della Guerra del Golfo... 

Il modo estremamente conciso con cui i dati dei pazienti vengono comunicati tra i medici non permette assolutamente di poter costruire un quadro completo della loro situazione. È quello che è successo con la mia serie di malattie. Ogni dottore identifica unicamente quelle condizioni in cui è specializzato. Ma provate a parlare della sindrome della guerra del Golfo e l’effetto che otterrete è quasi palpabile. Gli occhi si fanno vitrei e il tono di voce cambia, l'atteggiamento diventa sprezzante... Quando mi rivolsi al mio dottore spiegandogli come mi sentivo, lui mi chiese: “Pensa di soffrire di depressione?”. Risposi di sì ma non fece niente. Rendendosi conto della gravità della situazione, mia moglie e mio padre dovettero intercedere per me e contattare il mio medico.  Adesso sono in congedo malattia per depressione.  


Gerard Davey, RAF, 21 luglio 2004.
Ho lavorato con i dottori per 24 anni, quindi so bene come sono molti di loro – buoni, cattivi e indifferenti – ma quando vai dal tuo medico di famiglia e lei ti dice: “Non so cosa fare per lei, signor Davey”… Prima di tutto non avrebbe dovuto dirlo. Se non sapeva cosa fare per me, avrebbe dovuto tenere certi commenti per sé e mandarmi da un’altra persona che fosse in grado di aiutarmi. Uno va da un neurologo perché ci sono buone probabilità che possa essere affetto da sclerosi multipla e quello ti dice: “Signor Davey, non esageri troppo con questi suoi sintomi”.

Elizabeth Sigmund, dal 1967 e per alcuni anni segretaria del Working Party on Chemical and Biological Weapons, 28 luglio 2004.
Una delle cose più penose sia per gli 800 agricoltori sulla nostra banca dati della Rete Informativa degli Organofosfati, sia per le 5.000 vittime della Sindrome della Guerra del Golfo, è che entrambe le categorie sono passate da dottore a dottore, a volte finendo da uno psichiatra che non capisce che cosa sia successo, non capisce la tossicologia e che comincia a pensare che si tratta piuttosto di stress mentale...

È molto interessante il rapporto del 1992 della British Medical Association intitolato Pesticides, Chemicals and Health (Pesticidi, Prodotti chimici e Salute), in cui si fa un sondaggio delle scuole di medicina in Gran Bretagna chiedendo ad ognuna quale tipo di formazione tossicologica viene fornita ai giovani medici. Secondo il rapporto, certe scuole non fornivano alcuna formazione, mentre la maggior parte fornisce una formazione compresa tra una e dodici ore – dodici in casi comunque eccezionali –, il che, in una società moderna dove siamo costantemente esposti a prodotti chimici non sembra abbastanza né alla British Medical Association, né a me...

Questo passaggio è tratto da documenti della Medical School dell’Università dell’East Anglia: “È chiaro che attualmente gli organofosfati sono una fonte importante di problemi, ma si può pensare che prevarrà il buon senso e ad un certo punto si smetterà di farne uso. Le informazioni che gli studenti possiedono su di essi diventeranno quindi superflue”. Tutto questo non è ancora successo. E continua: “Pertanto cercheremo d’insegnare agli studenti i principi utili per rilevare la presenza di un problema a loro sconosciuto, e per trovare delle informazioni affidabili al riguardo in modo rapido ed efficiente. Sono quindi confortato dal fatto che i medici contattino la sua organizzazione per ottenere delle informazioni aggiornate, cosa che considererei come uno standard minimo di buona prassi.” Questo è molto lusinghiero in un certo senso, tuttavia continuo a ritenere allarmante il fatto che tutti, dalla nascita alla morte, siamo soggetti ad alti livelli di esposizione chimica nella nostra società. Si capisce che non c’è tempo per istruire i medici su tutto, ma certamente ci sarebbe dovuta essere una maggiore formazione per quei medici che si sarebbero occupati dei soggetti esposti.

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