Processo al disertore Watada, arriva la protesta dei pacifisti
Franco Pantarelli, Il Manifesto, 7 febbraio 2007

In migliaia a Fort Lewis dove il tenente Watada, che si è rifiutato di andare in Iraq, affronta la corte marziale. Il giudice respinge i testimoni della «guerra illegale»

Alcuni erano vestiti da carcerati e sulle loro facce c'erano le maschere di George Bush, Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Condoleezza Rice (come dire: sono loro quelli che devono andare in galera); altri vestivano invece la divisa e agitavano cartelli con la scritta «Siamo soldati e siamo con Watada»; altri ancora inneggiavano al «coraggio di resistere», alla necessità di «impeach Bush», mentre i più lapidari si accontentavano di un semplice ma inequivocabile «Basta».

Erano un migliaio i manifestanti davanti al Fort Lewis, la base militare non lontana da Seattle, nello stato di Washington, in cui il tenente Ehren Watada affronta la corte marziale per essersi rifiutato di andare in Iraq. E un migliaio, per una storia che i grandi media americani almeno per ora hanno praticamente ignorato è decisamente un ottimo risultato, specialmente se si tiene conto che davanti ai cancelli della base c'erano arrivati alle cinque del mattino per guadagnarsi il posto in aula e assistere al processo. Sono stati respinti, hanno argomentato con le sentinelle, con il capoposto, con un rappresentante del comando e alla fine a una cinquantina di loro è stato concesso, non di entrare nell'aula del processo, per carità, ma in una saletta nei paraggi in cui il dibattimento veniva trasmesso da una tv a circuito chiuso.


Il tenente Watada, 26 anni, originario delle Hawaii, non è stato certo il primo a rifiutarsi di andare in Iraq. Sebbene non ci siano cifre ufficiali (chissà come mai), secondo certe stime sono stati migliaia i soldati che nel corso di questi anni lo hanno preceduto, ottenendo in genere un «discreto accomodamento» da parte dei loro superiori, convinti che il problema di rimpiazzarli era sicuramente meno difficile dei problemi che poteva creare il loro esempio. Ma con Watada non era possibile un accomodamento, men che meno discreto. La sua «motivazione» del rifiuto di andare in Iraq, infatti, è stata che si tratta di «una guerra illegale» e che a provarlo c'è il fatto che le armi di distruzione di massa non c'erano, che il programma nuclerare di Saddam Hussein non esisteva, che i suoi «legami» con Al Qaeda erano un'invenzione, il tutto tenuto insieme dalla cosa principale: che al momento di dare l'ordine di attacco il «comandante in capo» George Bush sapeva benissimo che si trattava di balle.


In pratica, ciò che non ha il coraggio di fare la politica - i repubblicani per complicità, i democratici per opportunismo - potrebbero farlo i tribunali, se si riuscirà a far salire questo processo lungo i vari gradi della giustizia e a ottenere le testimonianze di chi «sa». E' un'ottima ragione per stare bene attenti, nei prossimi giorni e settimane, a cosa accadrà nella corte marziale di Fort Lewis, specie in un momento in cui perfino la ormai famosa mozione «non vincolante» contro la guerra in Iraq su cui in Senato si sta dibattendo sembra segnare il passo. L'ultima notizia, di ieri, è che i repubblicani «duri e puri», cioè quelli che hanno tanto legato le loro fortune a quelle di Bush che ormai possono solo seguirlo, sono riusciti a bloccare la discussione in aula (e il conseguente voto) servendosi delle bizantine regole procedurali della camera alta.


La giornata di lunedì a Fort Lewis è trascorsa nella scelta dei giurati. Quella di ieri è stata dedicata all'esame delle mozioni presentate dalla difesa e alle persone che gli avvocati del tenente Watada intendono chiamare sul banco dei testimoni. Il giudice che presiede il processo, il colonnello John Head, da quanto si saputo, ha fatto una strage: le mozioni le ha tutte respinte definendole roba da «difesa di Norimberga» e dichiarandole «irrilevanti».

E quanto ai testimoni, pare che abbia accolto un ufficiale di West Point che è stato istruttore di Watada, ma tutti quelli che potevano argomentare la «legalità» della guerra - un professore della Princeton University, il presidente del Centro per i diritti costituzionali, un'ex vice segretario generale dell'Onu - sono stati tutti respinti. Le premesse non sono proprio incoraggianti, ma in fondo nessuno le prevedeva tali. Il vero punto di questo processo - prevedono gli esperti di queste cose - saranno i ricorsi.

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